venerdì 19 dicembre 2008

Andrea Vitali: Dopo lunga e penosa malattia

L'ho letto d'un fiato.
Dopo due romanzi così così, il dottor Vitali torna a deliziarci con un racconto lungo delizioso e godibilissimo. Questa volta il medico di Bellano non ha preso ispirazione tra le tombe del cimitero del paese, ma ha attinto direttamente dai necrologi sui muri: "dopo lunga e penosa malattia". Come al solito personaggi e situazioni narrati sono esemplari di una provincia nota e familiare, l'epoca sono quegli anni sessanta e settanta in cui in casa c'era un solo apparecchio telefonico nel corridoio e da fuori si telefonava a gettoni, quegli stessi anni di Una finestra vistalago e Un amore di zitella.

I personaggi questa volta hanno nomi comuni, così come comune è la patologia narrata: l'infarto al miocardio che stronca il notaio Galimberti e l'angina pectoris, anticamera dell'infarto, di cui soffre l'amico e protagonista dottor Lonati. Ma chi ha commissionato quello strano necrologio? Come mai vi si parla di assidue cure prestate all'amico dal dottor Lonati? E cosa sono le impronte di scarpe bagnate sul pavimento e la puzza di fritto? Che ruolo ha il farmacista (stranamente anonimo) che assomiglia a un domatore di leoni, a un macellaio o a un maitre d'hotel?

Attorno a questi misteri si snoda una vicenda tanto semplice quanto inattesa, con un finale a sorpresa. Infatti mi stavo chiedendo dove fossero finite le nostre forze dell'ordine.

venerdì 12 dicembre 2008

Valerio Massimo Manfredi: Idi di marzo

Anche quest'anno il mio professore non è mancato all'appuntamento con i suoi lettori. Dopo averci incantati con L'Armata perduta, che ricostruisce l'Anabasi di Senofonte, ci ha regalato un romanzo che già dalla copertina richiama una data scolpita in modo indelebile nella memoria di tutti: le idi di marzo.

Tre anni fa lo incontrai, mi chiedo ancora quanto casualmente, ai Fori Imperiali dove stava facendo una lezione en plein air ai suoi studenti della Bocconi. Ed è proprio tra il tempio di Saturno, la casa delle Vestali e la Domus Publica che è ambientata buona parte del romanzo. L'altra metà è una folle corsa contro il tempo lungo le piste e le strade che scendono verso Roma dall'Appennino, strade che Manfredi conosce come le sue tasche per averle studiate e percorse a piedi e in moto.

Nello scenario della Roma del tramonto della Repubblica si alternano una serie di personaggi. I meno noti al grande pubblico, come Lepido, Calpurnia, Ligario, Cassio, Servilia, suo figlio Bruto con la moglie Porzia, prendono finalmente un corpo e un carattere, anche se nel caso dei congiurati questo carattere denota tutta la sua insipienza. Ma anche Antonio brilla per la sua ambiguità, Cleopatra spicca per la sua ambizione e Cicerone pare un vecchio fanatico. Su tutti si staglia la figura di Cesare, delineata in tutta la sua drammaticità nel momento più cruciale della storia di Roma. Manfredi ne delinea il disegno politico, ma anche il dramma dell'uomo che per chiudere finalmente la tragica stagione delle guerre civili è costretto a sacrificare la libertà alla sicurezza, argomento ancor oggi di grande attualità.

Ai personaggi storici si affiancano indimenticabili alcuni comprimari nati dalla fantasia dell'autore. Tra di essi per la loro fedeltà a Cesare spiccano Silio Salvidieno e Publio Sestio detto Baculo. E' proprio quest'ultimo uno dei protagonisti della corsa verso Roma per portare a Cesare un messaggio che lo metta in guardia dalla congiura imminente. A lui ed ai suoi amici si oppongono una banda di nostalgici pompeiani, tra i quali la spia Mustela (la faina) che pur perdendo la battaglia contro Publio Sestio Baculo riuscirà nell'intento di proteggere la congiura.

domenica 28 settembre 2008

Niccolò Ammaniti: Ti prendo e ti porto via

Una carrellata di rapporti psicotici.

Il romanzo si snoda lungo il tracciato dell'Aurelia, in una Maremma acquitrinosa ed assolata, nel paese immaginario di Ischiano Scalo, quattro case vicino alla laguna, torride d'estate, ghiacciate in inverno. Due vite scorrono su due binari paralleli senza quasi incontrarsi: si tratta di Pietro Moroni e di Graziano Biglia, un adolescente introverso figlio di un pastore ubriacone e un logoro playboy da spiaggia emulo di Paco de Lucia.

La storia si apre con la fine delle scuola e... la bocciatura di Pietro. Ma per capire cosa è successo bisogna fare un salto indietro di sei mesi.

Dopo anni di assenza Graziano torna ad Ischiano Scalo annunciando ai quattro venti il suo imminente matrimonio con Erica Trettel, una cubista ventenne con solide aspirazioni televisive. Vuole mettere la testa a posto, aprire una jeanseria al posto della vecchia merceria di famiglia e mettere al mondo tanti marmocchi frignanti. Niente di più lontano dalle aspettative di Erica, che sfrutta il vecchio fricchettone fintanto che non trova un'occasione qualsiasi di fare la velina in un programma qualunque, lasciandolo nella merda. Infatti Graziano aveva appena finito di organizzare una serata a Saturnia per ostentare a tutti gli amici il corpo scultoreo della sua promessa sposa.

Pietro è il classico ragazzo difficile, una famiglia problematica alle spalle, con un padre padrone alcolizzato e violento, e una madre persa nella nebbia degli psicofarmaci. Nemmeno il fratello maggiore si salva, metallaro con la passione per la musica melodica, un mezzo ritardato mentale. Il suo segreto è l'amicizia con Gloria, la bella figlia del direttore della banca locale. La famiglia Celani prende Pietro sotto la sua ala protettrice, ma questo attira l'attenzione di Federico Pierini e del suo branco che costringono Pietro in una gelida notte di pioggia a fare irruzione con loro nella scuola e a distruggere televisori e materiali.

In questa notte di pioggia, tra l'Aurelia e il paese, si incrociano i destini di una folla di personaggi malati ognuno a suo modo: presidi succubi di vicepresidi arpie, poliziotti violenti, pariolini viziati col complesso del primo bacio, borgatare isteriche coi capelli viola, bidelli che pensano di essere John Wayne e prostitute clandestine che chiamano la polizia.

E' qui che compare la professoressa Flora Palmieri, anonima zitella trentenne insegnante di lettere, chiamata in causa da una scritta sul muro della palestra della scuola devastata dai vandali e prontamente svegliata nel cuore della notte da una telefonata della vicepreside più perentoria di un ordine di servizio. La professoressa Palmieri è la chiave di volta del racconto e, mentre fa colazione all'alba in un bar per camionisti sulla statale, il suo destino si incrocia con quello del playboy Graziano Biglia, reduce da una sbornia per essere stato mandato brutalmente affanculo dalla sua bella cubista. Si incrocia anche con quello di Pietro, l'unico dei ragazzi che è stato riconosciuto dal bidello. Entrambi sono lirici e irresoluti, patetici nella loro incapacità di imporsi, di dire di no. Pietro viene messo sotto torchio e confessa, i teppisti sono smascherati, ma faranno di tutto per fargliela pagare.

Flora Palmieri torna a casa ad accudire la madre inferma senza ricordarsi di avere dato appuntamento a Graziano per aiutarlo a scrivere un curriculum. E qui, grazie ad una pasticca di sostanze psicotrope, avviene la metamorfosi di due adulti mai cresciuti del tutto che dopo una notte di sesso nell'acqua calda di Saturnia si innamorano perdutamente l'uno dell'altro dimenticando convenzioni e pregiudizi. Mentre il branco insegue Pietro per massacrarlo c'è l'unico fugace contatto tra i due protagonisti maschili di questa storia: Graziano, uscito dalla casa di Flora, si ferma a difendere il ragazzo dalle botte di Pierini e compagni.

Tutto fa pensare al lieto fine: il matrimonio tra il playboy e la prof, lei che ha finalmente trovato un uomo, lui che ha messo la testa a posto, la fine dell'anno che si avvicina con la promessa di Flora che Pietro non sarà bocciato così potrà andare al liceo nonostante l'ostracismo della famiglia. Ma le cose non vanno come devono andare. Il signor Moroni si rifiuta di presentarsi a scuola dopo la sospensione, Graziano parte improvvisamente per la Giamaica.

Si arriva così a giugno e ai tabelloni fuori da scuola. La professoressa Palmieri non si è più vista in giro negli ultimi mesi. Pietro è l'unico bocciato. Si rifugia nella laguna in mezzo alle zanzare dove Gloria lo raggiunge e lo incita a fargliela pagare alla Palmieri. Ed anche questa volta Pietro non è capace di dire di no, così si intrufola nella casa dell'insegnante per infilarle una biscia nel letto. Ma la mente di Flora non è più la stessa, l'esperienza amorosa e quella dell'abbandono hanno infranto completamente le piccole sicurezze su cui si reggeva la sua vita scialba. Anche il suo corpo non è più lo stesso: Graziano Biglia le ha lasciato il ventre tondo che lei ostenta nuda nella vasca da bagno in un delirio di canzoni, briciole e acqua. E accusa Pietro di essere un debole come lei, ma nel momento in cui lui reagisce il mangianastri elettrico cade nella vasca piena d'acqua.

Pierini gli domandò: "Lo sai che è morta la professoressa Palmieri?"
Pietro lo guardò negli occhi. E lo disse: "Lo so. L'ho ammazzata io".

E' questa la reazione di Pietro, la sua unica possibilità di salvarsi da una famiglia sbagliata, l'unico modo per non diventare un fallito come loro.

sabato 5 luglio 2008

Tomasi di Lampedusa: Il Gattopardo

Zione sei una bellezza stasera. La marsina ti sta alla perfezione. Ma cosa stai guardando? Corteggi la morte?

La domanda di Tancredi, dietro il suo sorriso beffardo ed ironico, durante il ballo a palazzo Ponteleone sintetizza quello che è il tema principale de “Il Gattopardo”: la morte, il disfacimento, la polvere. Un mucchietto di polvere livida sono le parole con cui si chiude il romanzo e nunc et in hora mortis nostrae quelle con cui si apre, in una circolarità analoga a quella del primo capitolo, che si snoda nell’arco di ventiquattro ore, da una recita all’altra del Santo Rosario. Morte che puntualmente fa capolino in ogni pagina del romanzo, per poi materializzarsi nei panni di una donna piacente e desiderabile in quello della morte del Principe.

Il paesaggio siciliano carico di odori travolgenti, di luce abbacinante fa da contrappunto ai sentimenti del protagonista e degli altri personaggi del romanzo, che fanno della dissimulazione e dell’impossibilità a mutare realmente il loro stile di vita un punto d’orgoglio. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi! È infatti una delle frasi di questo romanzo divenute celebri. Anche qui è Tancredi a dirla allo zio nel momento in cui decide, con un’avventura audace e predatoria delle sue, di unirsi a Garibaldi e ai Mille, così come poco dopo avrebbe rinunciato all’amore della contegnosa cugina Concetta per il matrimonio ricco con la bella Angelica Sedàra, figlia di Don Calogero, nipote di Peppe ‘Mmerda.

La vicenda del romanzo è ambientata ai tempi dell’unità d’Italia, in un momento in cui la grande aristocrazia isolana vive la sua ultima stagione di grandezza. Don Fabrizio guarda con distaccato disincanto sia al passato regime di “Franceschiello Dio Guardi” che ai Piemontesi del re Galantuomo. Quello che bisogna scongiurare, per preservare ancora un paio di generazioni la grandezza del Gattopardo, il fasto sbrecciato della nobiltà, è la Repubblica di don Peppino Mazzini. Ma è don Ciccio Tumeo a farci riflettere con il suo voto per i Borbone al plebiscito trasformato da Don Calogero in un’ovazione per i Savoia. L’ambientazione porta inevitabilmente a discutere se si tratti o no di romanzo storico, ma ritengo che si tratti di una mera disquisizione accademica: i romanzi siciliani sono storici e antistorici nello stesso tempo, da Mastro don Gesualdo a Conversazione in Sicilia da I Viceré al Gattopardo.

Due note personali su aspetti di minor conto che non cessano di stupirmi ad ogni rilettura.
L’ironia e il disincanto del narratore onnisciente che si affaccia di tanto in tanto nelle pagine del romanzo con notazioni che ci richiamano al tema del disfacimento e della morte: Si credevano eterni: una bomba fabbricata a Pittsburg, Penn. doveva nel 1943 provar loro il contrario.
E certi passaggi impareggiabili, uno tra tutti:
Ma gli altri… C’erano anche i nipoti: Fabrizietto, il più giovane dei Salina, così bello, così vivace, tanto caro.
Tanto odioso. Con la sua doppia dose di sangue Màlvica,…

Nulla cambia.

mercoledì 30 aprile 2008

Giovanni Pascoli: Italy

Italy, l'ultimo dei "Primi Poemetti", è una delle poesie più lunghe del poeta romagnolo (450 versi in due canti di terzine dantesche: canto primo, canto secondo) e ricalca moduli epico-narrativi. La dedica è singolare: Sacro all'Italia raminga. Tratta infatti uno degli argomenti più scottanti della storia sociale italiana tra Ottocento e Novecento, quello dell'emigrazione, fenomeno che riguardò non meno di 20 milioni di nostri connazionali. Ciò che spesso oggi sfugge è come, nell'intenzione di chi allora partiva, si trattasse di una migrazione temporanea che aveva come fine principale quello di migliorare la propria condizione economica (e quella della propria famiglia) in patria... per farsi un campo, per rifarsi un nido.

La vicenda narra di un gruppo familiare di quattro persone che ritorna una sera di febbraio a Caprona, in Garfagnana, per portarvi la piccola Maria detta Molly, nella speranza che l'aria salubre di montagna la possa guarire dalla tisi. La accompagnano il vecchio nonno e gli zii Beppe e Ghita. Nella casa avita, nera per la fuliggine e buia, è rimasta la nonna i cui gesti quotidiani come mungere le vacche, pulire la greppia e filare, si ripetono immutabili da sempre. La prima reazione della piccola è di rifiuto e nella sua lingua d'oltremare dice allo zio Beppe: Bad country, Ioe, your Italy! E lo zio la compiange: Poor Molly! Qui non trovi il pai con fleva di fronte al pane fatto in casa e al latte appena munto messo in tavola dalla nonna.

Il pai con fleva (pai with flavour), così come i molti bìsini (business), il fruttistendo (fruitstand) o vende checche, candi, scrima (cakes, candy, ice-cream) sono la lingua speciale dell'emigrate, un inglese italianizzato o addirittura dialettizzato che diventa la lingua franca in cui si esprime chi ha lasciato la propria terra e in qualche modo non appartiene del tutto né ad una realtà né all'altra.

E che dire dell'attualità del grido dell'emigrante, un vu' cumprà e costa poco che si ripete nel tempo:

Will you buy... per Chicago e Baltimora
buy images... per Troy, Memphis, Atlanta,
con una voce che te stesso accora:

cheap! ... nella notte, solo in mezzo a tanta
gente; cheap! cheap! tra un urlerio che opprime;
cheap! ... Finalmente un altro odi, che canta...

Molly però non è attratta come la zia Ghita dalla modernità de la mi' Mèrica dove per pochi cents si possono comprare stoffe lustre come sete. Anche se all'inizio la sua reazione è lapidaria

You like this country? ella negò severa
Oh, no! Bad Italy! Bad Italy!

a poco a poco la nonna la conquista, con i suoi gesti lenti, con il suo filare sempre uguale, che ripercorrono lo stesso affetto da generazioni. Sono proprio quei gesti del tempo delle fate, che nessuno in America fa più, che rapiscono la fantasia di Molly che trascorre ore accanto al focolare e alla nonna. E Molly decide, decide di die in Italy. " oh yes, Molly morire in Italy!"

Italy allora si commuove e il maltempo lascia il posto al sole primaverile che guarisce la piccola. In quella casa che la bimba bad chiamava tornano le rondini, sweet, sweet. Ma la situazione iniziale si ribalta: il bel tempo fa guarire la tosse di Molly, ma la tosse prende ora la nonna e se la porta via.

Il poemetto si chiude con la partenza della famiglia dopo il funerale. Hanno preso la ticchetta del barco e tra un buona cianza (chance) e un good bye se ne vanno, con la promessa di ritornare, anche quella della piccola Molly.

Al di là della vicenda, commovente nella sua semplicità, il poemetto è un capolavoro linguistico in cui si intrecciano la bellezza di quattro diversi idiomi: italiano, vernacolo, inglese e gergo dell'emigrante, un misto delle prime tre. Non c'è da stupirsi che il buon Benedetto Croce abbia cassato questa lirica che è invece un esempio dello sperimentalismo linguistico pascoliano e di quanto questo poeta sia stato capace di anticipare temi che verranno ripresi ed ampliati in tempi più vicini a noi.



lunedì 31 marzo 2008

Dacia Maraini: La lunga vita di Marianna Ucria

Un romanzo siciliano, un romanzo femminile.

In una Sicilia che sa di decadenza e di disfacimento nella sua classe nobiliare mummificata e chiusa su se stessa appare una figura controcorrente, una donna che proprio grazie alla sua diversità riesce a vivere una vita degna di essere vissuta. Marianna Ucria è una "povera mutola" che vive in una Palermo di inizio Settecento ancora ancorata al secolo passato. Non si sottrae al proprio destino di femmina, nata per essere usata e procreare una nobile schiatta, ma riempie la sua vita di pensieri. Comunica con gli altri grazie alla scrittura, legge i classici e i filosofi, e soprattutto sa leggere i pensieri, i pensieri più nascosti dei suoi interlocutori.

Ma Marianna non è nata sordomuta. Il romanzo si apre con la piccola Marianna che accompagna il signor padre alla Vicaria, ad un'esecuzione del tribunale dell'Inquisizione. Perché mai una bambina dovrebbe assistere ad un'impiccagione? Scantu la ‘nsurdiu e scanto l’avi a sanare, uno spavento l'ha resa sorda e una spavento la deve guarire. Ma l'impiccagione del giovane lascia a Marianna solamente un altro shock senza guarirla dalla sua sordità.

La vita prosegue all'interno del nucleo familare... a tredici anni la piccola mutola viene data in sposa allo zio, quel duca Pietro Ucria così strano, sempre vestito di rosso come un gambero, che non si sarebbe mai sposato se non avesse ricevuto un'insperata eredità da lontane zie. Quello zio che la prende senza dote perché le vuole bene.

Marianna in questo matrimonio riesce a ritagliarsi uno spazio suo, controcorrente rispetto alle stereotipate usanze della nobiltà siciliana. E' la signora duchessa mutola, ma sceglie di vivere a Bagheria anziché a Palermo ristrutturando a suo piacimento la casena del padre. Qui partorisce figli che il marito zio le ha messo a forza nel ventre, qui riceve i familiari che vengono a visitarla criticando la sua rusticità, qui flirta con l'Intermassimi, il pittore che le affresca la villa. Con tutti scambia biglietti che conserva in una scatola di latta, legge per ore nella biblioteca, accoglie strani personaggi come Fila, la serva dagli occhi spauriti come quelli di un cerbiatto.

I figli che mette al mondo sembrano non appartenerle, ma essere destinati a perpetuare le usanze di questa nobiltà, maritandosi bambine, andando monache o dilapidando patrimoni. Solo il piccolo Signoretto le apre il cuore. Il piccolo Signoretto nato anzitempo, senza capelli e senza denti che come lei non parla, ma ha una vivacità intellettuale di gran lunga superiore a quella degli altri figli e siede a tavola accanto a lei. Ma come una nemesi per il troppo amore, è proprio Signoretto l'unico figlio che non sopravvive, lasciando Marianna distrutta ma non vinta.

Nonostante la sua sordità Marianna comunica con gli altri figli e con chi le sta attorno. Proprio il fatto di doverlo fare per iscritto non le impedisce di avere relazioni profonde: con il signor padre che sceglie di trascorrere i sui ultimi giorni con lei, con i figli che tovano in lei quella madre attenta che a lei era mancata, perché la sua era sempre affogata nel laudano. Marianna ad un certo punto ha pure la forza di aprire gli occhi di fronte all'assalto di maschio del marito zio e di rifiutarlo, lasciandolo interdetto.

La morte del marito apre un nuovo capitolo nella vita della duchessa: inizia ad occuparsi dei feudi di famiglia in vece del figlio Mariano che, languido come la nonna, rifiuta di crescere e di assumersi responsabilità. Marianna visita i feudi, accompagnata dalle figlie e da Saro, il fratello della serva Fila che un giorno ha scoperto in casa sua. Per sfuggire al corteggiamento di Saro che va facendosi sempre più pressante, Marianna va in visita al fratello Carlo chiedendogli di trovargli una moglie per il servo. Ed è proprio in questa occasione che, leggendo nei pensieri del fratello, Marianna riesce a scoprire il perché del suo mutismo, un perché tanto allucinante quanto semplice.

Ma Marianna ormai ha messo le ali e nonostante tutte le sue precauzioni non può resistere all'amore di Saro, che a quarant'anni le fa conoscere la passione, né si nega al corteggiamento del giudice Camaleo che salva Fila dalla forca. Marianna vola, o forse scappa, parte per Napoli e poi per Roma, nonostante le rimostranze del fratello e dei figli. Una femminista ante litteram, senza sapere di esserlo, una donna che in un secolo di donne analfabete legge e scrive, anche se non sente e non parla.

domenica 23 marzo 2008

Andrea Vitali "Un amore di zitella"

Una sposina acida e un amore di zitella.

Iole Vergara, la protagonista di questo racconto lungo di Vitali si muove nel microcosmo di Bellano, dagli uffici comunali dove lavora come dattilografa, all’appartamento al secondo piano del condominio con vistalago ereditato dai genitori. Una vita piatta, senza slanci o grilli per la testa, in cui la massima aspirazione sembra essere quella di acquistare un televisore per seguire al festival di Sanremo Tony Renis e la sua “Quando, quando, quando”.

Deve vedersela però con l’invidia dell’astiosa collega Iride Rusconi, avida lettrice di romanzetti rosa divorati di nascosto sotto la scrivania, alla quale il capoufficio preferisce la Vergara per un incarico straordinario in vista delle elezioni amministrative. Il rancore di Iride continua ad aumentare e si sfoga sia nei confronti del segretario comunale Restelli, ammalato di prostata, che verso la collega che le ha sottratto una fonte di guadagno. La vendetta di Iride si concretizzerà in occasione del suo matrimonio al quale Iole non sarà invitata.

Ci pensa zia Ortensia, una vecchia amica di famiglia di Rapallo, a portare scompiglio. Iole, la nipote adottiva preferita, deve correre ad assisterla dopo un ricovero in ospedale, e la sua improvvisa partenza per la Riviera fa immaginare alla maligna collega chissà quali tresche nascoste. E come se non bastasse la candida Iole decide di essere superiore alla meschinità di Iride e risponde al mancato invito a nozze con una munifica edizione della Divina Commedia. Il biglietto d’accompagnamento recita: “Con i più sinceri auguri. Iole e … Dante”.

Ma chi sarà mai questo Dante? Quali segreti nasconde la pallida dattilografa? L’accanita lettrice di romanzetti non degna di uno sguardo i tre tomi rilegati in pelle e si mette ad indagare sulla vita privata della collega col tatto degno di un elefante. Pressata dall’invadenza di Iride, Iole non sa che dire e arrossisce. Nasce così nella sua immaginazione un misterioso corteggiatore genovese, che la porta ad una metamorfosi: fondotinta, profumo, camicetta nuova. Ancora una volta è zia Ortensia a portare scompiglio: Iole deve richiedere un permesso al capoufficio per accogliere alla stazione la vecchia zia, scatenando le illazioni e la malignità della collega.

Poche notti dopo però la vecchia zia si spegne gettando la timida Iole nella disperazione. Al dolore per la perdita si aggiunge l’imbarazzo, perché la bugia su Dante verrà sicuramente smascherata durante il funerale. Ma sarà proprio il burbero segretario comunale, al corrente di questa commedia degli equivoci, a salvare l’innocente segreto della sua dipendente.

martedì 19 febbraio 2008

C.F.Meyer "Jürg Jenatsch. Una storia grigionese"

La prima volta che ho sentito parlare di Jürg Jenatsch è stato un anno fa a Coira. Durante la visita guidata alla città la nostra guida, passando davanti a quella che un tempo era una locanda, citò la storia di questo controverso personaggio e la sua morte in un agguato durante una festa di carnevale. Parlò anche della sua tragica fuga attraverso il passo del Muretto, con la moglie ammazzata durante l'eccidio del Sacro Macello sulle spalle. Da allora mi è rimasta la curiosità di approfondire la vicenda di quello che alla fine dell'Ottocento era diventato l'eroe simbolo dell'indipendenza dei Grigioni, anche perché in tedesco avevo capito poco.

Il nome di Jürg Jenatsch (che in romancio si pronuncia con l'accento sulla a finale) si intreccia alla storia ed alla letteratura diventando di conseguenza un mito del quale è difficile definire i contorni... ed è forse questo il suo più grande fascino. Infatti non è facile scindere la figura del personaggio storico, pastore protestante in quel di Berbenno durante il Sacro Macello e poi capitano di ventura per gli eserciti veneziano e francese, dal personaggio letterario protagonista dell'omonimo romanzo di C.F. Meyer, che nientemeno che Sigmund Freud cita, per la sua machiavellica conversione al cattolicesimo, come emblema della duplicità dell'uomo.


Nel romanzo di Meyer (1876) il tema centrale è quello dell'ambiguità e dei dilemmi senza soluzione: per Jenatsch il dramma è quello di non riuscire a conciliare la fedeltà alla religione protestante con la fedeltà alla patria. Dopo quasi vent'anni di combattimenti si rende conto che la Francia, tradizionale alleato dei Grigioni, non potrà mai restituire loro la Valtellina e che l'unica soluzione è un'alleanza con la Spagna. Da qui la sua conversione al cattolicesimo, vissuta come un tradimento dai suoi detrattori.

Anche Lucrezia Planta, la protagonista femminile della storia, è dilaniata tra la passione per Jenatsch, che ama fin da quando era bambina, e l'amore filiale per il padre Pompeo, leader del partito cattolico, ucciso a colpi d'ascia proprio dal mercenario grigione con un'azione da macellaio. Lucrezia, che al momento dell'assassinio aveva giurato di vendicare il padre, nel suo peregrinare salva invece Jenatsch dagli spagnoli che lo avevano catturato presso il Forte di Fuentes e diventa poi sua complice nella temeraria manovra diplomatica di avvicinamento alla Spagna.

Il dramma è di quelli irrisolvibili, da tragedia greca, e non può avere che un epilogo funesto. La nemesi si compie nella locanda di Coira la notte di carnevale, mentre si festeggia la vittoria dei Grigioni che hanno riconquistato la Valtellina grazie all'alleanza con la Spagna. Rodolfo Planta, cattolico integralista e cugino di Lucrezia, tende un'imboscata al controverso eroe per vendicare nello stesso tempo la Fede e l'onore dei Planta. Il vecchio servitore Luca riesce a sventare l'agguato e, morente, porge a Lucrezia quella stessa scure che aveva ucciso suo padre. Disperata, vede l'uomo che ama da sempre circondato dai sicari e, come in trance, solleva l'arma e la cala sul "caro capo" compiendo così l'estremo sacrificio di uccidere l'uomo che ama.

E' un libro strano ed ho fatto fatica a leggerlo: la vicenda è splendida così come è splendida la tragica ambivalenza dei due protagonisti. Non sono riuscita a capire se a renderne pesante la lettura sia l'antistoricismo di Meyer, ormai troppo distante dal gusto contemporaneo, o la traduzione degli anni quaranta che utilizza un periodare ed un lessico ormai desueto, che ricalca quello dell'originale tedesco.

sabato 26 gennaio 2008

Antonia Arslan "La masseria delle allodole"

Il racconto del genocidio degli armeni viene affrontato in questo romanzo da Antonia Arslan, docente ed archeologa padovana, che recupera il filo di una memoria familiare rimossa recuperando le origini perdute.

Dopo un breve prologo che vede Antonia bambina alla basilica padovana del Santo con il patriarca, il nonno Yerwant, la prima parte del racconto ci trasporta nella piccola città neghittosa e sonnolenta dove vive lo zio Semprad, il farmacista dal cuore semplice che trascorre la giornata tra una partita a tric-trac e le chiacchiere al caffè. Intorno a lui ruota una vita familiare affollata ed uguale, che viene movimentata dall'annuncio della prossima visita di Yerwant, il fratello medico che ha fatto fortuna in Italia dove ha sposato una contessa. Il carteggio fra i due fratelli si fa fitto, così come i preparativi per la partenza e per l'accoglienza. Siamo nel 1915. Semprad decide di ristrutturare la Masseria delle allodole, la casa di campagna di famiglia, per ospitare il fratello con tutti gli onori.
Ma l'Italia entra in guerra e Semprad non riceve il telegramma del fratello perché si compie il destino degli armeni: gli uomini vengono massacrati alla masseria proprio nel giorno della sua inaugurazione.

La seconda parte del romanzo segue le donne della famiglia, tra cui la matriarca Shushanig e la greca Ismene, nel lungo cammino della deportazione, dai paesi dell'Armenia verso il deserto siriaco. Solidarietà, amore, fame, miserie e morte si snodano lungo la strada interminabile che le porta fino alle porte di Aleppo, dove fortunatamente vive lo zio Zareh, che riesce a salvare i suoi congiunti nascondendoli nel doppiofondo di una carrozza.

Romanzo lirico e sognante nella prima parte, tragico e struggente nella seconda, è raccontato al presente seguendo il punto di vista dei protagonisti. Non mancano però alcuni interventi del narratore omnisciente: "Ismene raccoglie questi ricordi... Finirà in mezzo a tutti i resti del suo passato, e a lei stessa, morta per difenderli nell'incendio di Smirne". Era il 1922. Ma questa è un'altra storia.

giovedì 24 gennaio 2008

Andrea Vitali "Una finestra vistalago"



Per me è il migliore dei romanzi di Vitali. Come gli altri è ambientato nel microcosmo di Bellano, un paesotto sul lago di Como con tutte le caratteristiche e i pregiudizi della provincia lombarda. Mi ha avvinta fin dalle prime pagine: sarà perché sono cresciuta in un paese vistalago dove si respirava la stessa atmosfera del romanzo, sarà perché da ragazzina avevo conosciuto anch'io un Arrigoni Giuseppe (se non ricordo male era di Primaluna o di Cortenova in Valsassina) omonimo di uno dei tanti che popolano questo romanzo.

E' uno dei rari esempi di romanzo corale, in cui protagonista è l'intero paese, con i sui tipi e le sue macchiette più che i suoi abitanti: il dottor Tornabuoni, medico condotto emiliano ovviamente comunista. L'Eraldo Bonomi, l'unico militante locale del PSIUP, cornutissimo marito della bella Elena, importata già incinta direttamente dall'alluvione del Polesine dopo una gita organizzata dal sindacato e costretta a convivere con gli anziani genitori del marito e a respirare puzza di umidità e di minestra nell'angusto e cadente bilocale con la finestra vistalago. La sublimazione della tipizzazione la si raggiunge con Maria Grazia Perdicane, figlia ribelle dell'industrialotto locale, che al contrario della sorella Grazia (mi sono scompisciata dalle risate a pensare alle due Grazie e... alla terza sottintesa) rifiuta di studiare al severissimo liceo Manzoni preferendogli ragioneria e riesce a sposare il suo battellotto, Arrigoni Giuseppe per l'appunto.

Il romanzo è anche giocato sul filo sottile del doppiosenso. Ci ho messo un momento a capire quale fosse l'indicibile malattia che comincia per S di cui è affetto l'Arrigoni, che Maria Grazia si ostina a nascondere. E' qui che emerge la tutta la bravura del mestiere di Vitali, medico condotto al quale la gente sussurra senza dire i segreti inconfessabili, negati di fronte ai compaesani in sala d'aspetto ed anche al parroco don Giuseppe Arrigoni in confessionale.

Altri commenti su anobii.

sabato 19 gennaio 2008

Sveva Casati Modignani "Singolare femminile"

Romanzo rosa, letteratura al femminile. Queste etichette hanno un non so che di riduttivo e nascondono una sorta di snobismo intellettuale. Non mi vergogno assolutamente a dire che preferisco questo tipo di romanzi ad altri più impegnati. Sono libri che si possono leggere tranquillamente alla sera, dopo una faticosa giornata di lavoro. Sono libri in cui si riconoscono luoghi familiari, personaggi già incontrati nella vita reale, sentimenti e vicende capitati magari alla migliore amica.

Il romanzo è ambientato a Vertova, un paesino della Val Seriana luogo di origine della famiglia Agrestis, dietro al quale ciascuno di noi può rivedere uno dei tanti paesi delle valli lombarde presenti nel proprio immaginario. E poi a Milano, opulenta e laboriosa, nel centro di Roma con le sue boutique antiquarie, in Inghilterra e sulla Riviera Ligure, dove ho riconosciuto nella descrizione della casa di vacanze della protagonista quella stessa villa sul mare affittata per anni da uno zio di mia mamma.

La protagonista della vicenda è Martina, nome oggi inflazionato, nata durante la guerra da una relazione extraconiugale e cresciuta senza padre. Martina mette al mondo tre figlie, Giuliana, Maria e Osvalda, con tre uomini diversi ma, per scelta o per destino, non ne sposa nemmeno uno. Le cresce da sola, sfidando le convenzioni e i pregiudizi nei confronti di una ragazza-madre. Questo modello di comportamento si trasmette come un'eredità anche alla terza generazione, secondo il più classico degli schemi della psicologia familiare o della tragedia classica.

Solo la prematura morte di Martina porterà alla scoperta che, senza che nessuno lo sapesse, la protagonista ha sposato il suo primo amore e metterà in moto una discussione che porterà le donne di casa Agrestis a riconoscere e rivalutare finalmente il ruolo maschile e paterno dei propri compagni.

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venerdì 18 gennaio 2008

Valerio Massimo Manfredi "L'armata perduta"

Dedico il primo post di questo nuovo blog al mio "vecchio" professore di Topografia antica. Diciamo che probabilmente si offenderebbe a sentirsi dare del vecchio tout court, perché è un tipo assolutamente giovanile, ma ormai sono passati 23 anni da quando l'ho conosciuto.
Manfredi è una delle poche persone al mondo che è riuscita a fare i soldi con l'archeologia, una disciplina con cui di solito si fa la fame o ben che vada si sopravvive. Già ai tempi dell'università aveva la rara capacità di avvincere facendo lezione. Seguivamo le orme di Senofonte, parasanga dopo parasanga, tracciando su una cartina l'itinerario dalla Turchia alla Siria, dall'Iraq all'Armenia. Ci ho pure trascinato mio marito in viaggio di nozze!
Quest'anno Manfredi ha pubblicato il romanzo "L'Armata Perduta", una ricostruzione dell'Anabasi vista con gli occhi femminili di una giovane donna Abira, che si innamora di Xeno, lo scrittore ateniese che segue l'armata dei Diecimila, abbandonando il proprio villaggio ai limiti del deserto siriano e seguendolo lungo tutto il difficile cammino. Manfredi ripercorre la marcia verso l'interno da Sardi a Cunassa, facendoci respirare la sabbia del deserto ed arroventare dal sole cocente. Poi ci porta in mezzo alle insidie di bellicosi indigeni sulle montagne dell'Anatolia ed infine ci fa perdere, assieme all'armata spartana, tra le valli innevate dell'Armenia.
Anche nel romanzo traspare la tesi di Manfredi sull'Anabasi, che egli stesso ha potuto verificare sul campo nel corso delle spedizioni che ha effettuato sul territorio. I Diecimila dovevano vincere o sparire. Sparta, ufficialmente alleata del Gran Re Artaserse, non poteva appoggiare il tentativo di Ciro di sovvertire l'ordine costituito, marciando contro il suo stesso fratello. Mandò quindi un'armata di mercenari, reclutata di nascosto, per non perdere l'opportunità di aver appoggiato Ciro qualora questi avesse vinto. Insomma un intrigo in piena regola, uno dei più antichi intrighi della storia.

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