sabato 26 gennaio 2008

Antonia Arslan "La masseria delle allodole"

Il racconto del genocidio degli armeni viene affrontato in questo romanzo da Antonia Arslan, docente ed archeologa padovana, che recupera il filo di una memoria familiare rimossa recuperando le origini perdute.

Dopo un breve prologo che vede Antonia bambina alla basilica padovana del Santo con il patriarca, il nonno Yerwant, la prima parte del racconto ci trasporta nella piccola città neghittosa e sonnolenta dove vive lo zio Semprad, il farmacista dal cuore semplice che trascorre la giornata tra una partita a tric-trac e le chiacchiere al caffè. Intorno a lui ruota una vita familiare affollata ed uguale, che viene movimentata dall'annuncio della prossima visita di Yerwant, il fratello medico che ha fatto fortuna in Italia dove ha sposato una contessa. Il carteggio fra i due fratelli si fa fitto, così come i preparativi per la partenza e per l'accoglienza. Siamo nel 1915. Semprad decide di ristrutturare la Masseria delle allodole, la casa di campagna di famiglia, per ospitare il fratello con tutti gli onori.
Ma l'Italia entra in guerra e Semprad non riceve il telegramma del fratello perché si compie il destino degli armeni: gli uomini vengono massacrati alla masseria proprio nel giorno della sua inaugurazione.

La seconda parte del romanzo segue le donne della famiglia, tra cui la matriarca Shushanig e la greca Ismene, nel lungo cammino della deportazione, dai paesi dell'Armenia verso il deserto siriaco. Solidarietà, amore, fame, miserie e morte si snodano lungo la strada interminabile che le porta fino alle porte di Aleppo, dove fortunatamente vive lo zio Zareh, che riesce a salvare i suoi congiunti nascondendoli nel doppiofondo di una carrozza.

Romanzo lirico e sognante nella prima parte, tragico e struggente nella seconda, è raccontato al presente seguendo il punto di vista dei protagonisti. Non mancano però alcuni interventi del narratore omnisciente: "Ismene raccoglie questi ricordi... Finirà in mezzo a tutti i resti del suo passato, e a lei stessa, morta per difenderli nell'incendio di Smirne". Era il 1922. Ma questa è un'altra storia.

giovedì 24 gennaio 2008

Andrea Vitali "Una finestra vistalago"



Per me è il migliore dei romanzi di Vitali. Come gli altri è ambientato nel microcosmo di Bellano, un paesotto sul lago di Como con tutte le caratteristiche e i pregiudizi della provincia lombarda. Mi ha avvinta fin dalle prime pagine: sarà perché sono cresciuta in un paese vistalago dove si respirava la stessa atmosfera del romanzo, sarà perché da ragazzina avevo conosciuto anch'io un Arrigoni Giuseppe (se non ricordo male era di Primaluna o di Cortenova in Valsassina) omonimo di uno dei tanti che popolano questo romanzo.

E' uno dei rari esempi di romanzo corale, in cui protagonista è l'intero paese, con i sui tipi e le sue macchiette più che i suoi abitanti: il dottor Tornabuoni, medico condotto emiliano ovviamente comunista. L'Eraldo Bonomi, l'unico militante locale del PSIUP, cornutissimo marito della bella Elena, importata già incinta direttamente dall'alluvione del Polesine dopo una gita organizzata dal sindacato e costretta a convivere con gli anziani genitori del marito e a respirare puzza di umidità e di minestra nell'angusto e cadente bilocale con la finestra vistalago. La sublimazione della tipizzazione la si raggiunge con Maria Grazia Perdicane, figlia ribelle dell'industrialotto locale, che al contrario della sorella Grazia (mi sono scompisciata dalle risate a pensare alle due Grazie e... alla terza sottintesa) rifiuta di studiare al severissimo liceo Manzoni preferendogli ragioneria e riesce a sposare il suo battellotto, Arrigoni Giuseppe per l'appunto.

Il romanzo è anche giocato sul filo sottile del doppiosenso. Ci ho messo un momento a capire quale fosse l'indicibile malattia che comincia per S di cui è affetto l'Arrigoni, che Maria Grazia si ostina a nascondere. E' qui che emerge la tutta la bravura del mestiere di Vitali, medico condotto al quale la gente sussurra senza dire i segreti inconfessabili, negati di fronte ai compaesani in sala d'aspetto ed anche al parroco don Giuseppe Arrigoni in confessionale.

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sabato 19 gennaio 2008

Sveva Casati Modignani "Singolare femminile"

Romanzo rosa, letteratura al femminile. Queste etichette hanno un non so che di riduttivo e nascondono una sorta di snobismo intellettuale. Non mi vergogno assolutamente a dire che preferisco questo tipo di romanzi ad altri più impegnati. Sono libri che si possono leggere tranquillamente alla sera, dopo una faticosa giornata di lavoro. Sono libri in cui si riconoscono luoghi familiari, personaggi già incontrati nella vita reale, sentimenti e vicende capitati magari alla migliore amica.

Il romanzo è ambientato a Vertova, un paesino della Val Seriana luogo di origine della famiglia Agrestis, dietro al quale ciascuno di noi può rivedere uno dei tanti paesi delle valli lombarde presenti nel proprio immaginario. E poi a Milano, opulenta e laboriosa, nel centro di Roma con le sue boutique antiquarie, in Inghilterra e sulla Riviera Ligure, dove ho riconosciuto nella descrizione della casa di vacanze della protagonista quella stessa villa sul mare affittata per anni da uno zio di mia mamma.

La protagonista della vicenda è Martina, nome oggi inflazionato, nata durante la guerra da una relazione extraconiugale e cresciuta senza padre. Martina mette al mondo tre figlie, Giuliana, Maria e Osvalda, con tre uomini diversi ma, per scelta o per destino, non ne sposa nemmeno uno. Le cresce da sola, sfidando le convenzioni e i pregiudizi nei confronti di una ragazza-madre. Questo modello di comportamento si trasmette come un'eredità anche alla terza generazione, secondo il più classico degli schemi della psicologia familiare o della tragedia classica.

Solo la prematura morte di Martina porterà alla scoperta che, senza che nessuno lo sapesse, la protagonista ha sposato il suo primo amore e metterà in moto una discussione che porterà le donne di casa Agrestis a riconoscere e rivalutare finalmente il ruolo maschile e paterno dei propri compagni.

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venerdì 18 gennaio 2008

Valerio Massimo Manfredi "L'armata perduta"

Dedico il primo post di questo nuovo blog al mio "vecchio" professore di Topografia antica. Diciamo che probabilmente si offenderebbe a sentirsi dare del vecchio tout court, perché è un tipo assolutamente giovanile, ma ormai sono passati 23 anni da quando l'ho conosciuto.
Manfredi è una delle poche persone al mondo che è riuscita a fare i soldi con l'archeologia, una disciplina con cui di solito si fa la fame o ben che vada si sopravvive. Già ai tempi dell'università aveva la rara capacità di avvincere facendo lezione. Seguivamo le orme di Senofonte, parasanga dopo parasanga, tracciando su una cartina l'itinerario dalla Turchia alla Siria, dall'Iraq all'Armenia. Ci ho pure trascinato mio marito in viaggio di nozze!
Quest'anno Manfredi ha pubblicato il romanzo "L'Armata Perduta", una ricostruzione dell'Anabasi vista con gli occhi femminili di una giovane donna Abira, che si innamora di Xeno, lo scrittore ateniese che segue l'armata dei Diecimila, abbandonando il proprio villaggio ai limiti del deserto siriano e seguendolo lungo tutto il difficile cammino. Manfredi ripercorre la marcia verso l'interno da Sardi a Cunassa, facendoci respirare la sabbia del deserto ed arroventare dal sole cocente. Poi ci porta in mezzo alle insidie di bellicosi indigeni sulle montagne dell'Anatolia ed infine ci fa perdere, assieme all'armata spartana, tra le valli innevate dell'Armenia.
Anche nel romanzo traspare la tesi di Manfredi sull'Anabasi, che egli stesso ha potuto verificare sul campo nel corso delle spedizioni che ha effettuato sul territorio. I Diecimila dovevano vincere o sparire. Sparta, ufficialmente alleata del Gran Re Artaserse, non poteva appoggiare il tentativo di Ciro di sovvertire l'ordine costituito, marciando contro il suo stesso fratello. Mandò quindi un'armata di mercenari, reclutata di nascosto, per non perdere l'opportunità di aver appoggiato Ciro qualora questi avesse vinto. Insomma un intrigo in piena regola, uno dei più antichi intrighi della storia.

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