mercoledì 20 giugno 2012

Saba: Città vecchia

Commistione dei generi e citazionismo: queste due caratteristiche sono proprie della letteratura e dell'arte della seconda metà del Novecento. E anche Fabrizio de Andrè, il grande cantautore e poeta genovese, non ne è esente. Ecco quindi che mi è venuto spontaneo accostare la sua canzone La città vecchia alla lirica quasi omonima di Umberto Saba Città vecchia. In entrambe il protagonista è il centro storico della città, Genova o Trieste, (descritto magistralmente in questo video della prof. Clara Veronese), popolato da un'umanità varia e oscura, detrito del grande porto che è il cuore pulsante della città stessa.

La poesia è composta da quattro strofe di diversa lunghezza e senza un preciso schema metrico, in cui prevalgono gli endecasillabi (due di essi tronchi), ai quali si alternano due settenari, tre quinari e un ternario. Vi è la presenza dell'anafora dell'avverbio di luogo qui che sottolinea appunto la centralità e l'importanza del centro storico come protagonista della lirica. Da notare le poche parole in rima: lupanare/mare; detrito/infinito; va/umiltà; friggitore/amore/dolore/Signore; impazzita/vita; compagnia/via. Ad un termine fortemente connotato in senso realistico come lupanare friggitore o detrito Saba accosta e contrappone un vocabolo che ne smorza il peso e la violenza e pone l'accento sulla valenza morale come mare infinito o Signore. Spesso questi stessi termini sono presenti in un verso monoverbale, costituito cioè da una sola parola, caricndosi così una rilevanza ancora maggiore. Frequenti anche, come spesso in Saba, gli enjambements: si specchia/qualche fanale; che va/dall’osteria; il detrito/di un grande porto; impazzita/d’amore; ecc…

Se ad una prima lettura la poesia sembra dipingere un quadro espressionistico di aspro realismo, rileggendo con più attenzione si può notare che ci troviamo di fronte ad un “crescendo”, che accompagna il poeta lungo la via che conclude la lirica, ma che parte dal per ritornare alla mia casa del primo verso. La sua adesione al mondo degli umili presenti nell’oscura via è completa: Saba si identifica con loro e sente in loro compagnia il suo pensiero farsi più puro e la presenza di Dio.

Anche De André conclude la sua canzone con il richiamo agli umili del tutto simile al pensiero di Saba: se non sono gigli son pur sempre figli / vittime di questo mondo. La citazione di Saba è palese: la sua canzone è composta da quattro parti in cui compaiono la bimba che il destino vuole diventi prostituta, i pensionati gonfi di vino e il vecchio professore che solo tra le braccia della donnaccia riesce ad avere un po’ di comprensione. Come in altre sue canzoni, ad esempio Via del Campo, il realismo non è da meno di quello di Saba, come non da meno è l’adesione del cantautore a questo mondo vero, contrapposto al perbenismo borghese degli anni Sessanta.



lunedì 18 giugno 2012

Chiara: La stanza del vescovo

Chi non ha mai letto La stanza del vescovo?
Per noi che abitiamo quel lembo di terra lombarda tra laghi e montagne Piero Chiara è un romanziere immancabile, che ha saputo toccare le corde del nostro immaginario collettivo con le sue citazioni di barche e darsene, tra fughe e internamenti in Svizzera ed emigrazione.

Anche se mi piace definirlo un racconto itinerante, il romanzo ha una sua unità di tempo, di luogo e d'azione, quasi come una tragedia dai canoni aristotelici. La storia infatti si svolge esattamente nell'arco di un anno, dal luglio del 1946 a quello successivo, in un'atmosfera di sospensione del vivere, una sorta di anno sabbatico tra la fine della guerra e la ripresa dell'esistenza. L'azione si apre con l'arrivo della Tinca, la barca dell'anonimo narratore, nel porto di Oggebbio e si chiude con la sua partenza, dopo aver peregrinato di porto in porto lungo le sponde di quello stesso lago Maggiore che rappresenta appunto l'unità di luogo. Come nelle migliori tragedie greche i personaggi sono tre: il narratore, Temistocle Orimbelli e sua cognata Matilde Scrosati vedova Berlusconi. Vedova bianca ...

Dicevo appunto che la vicenda si apre nel porticciolo di Oggebbio dove il protagonista, giovane sfaccendato alla giuda della tozza barca di nome Tinca, io narrante della storia, si imbatte nel dottor Orimbelli. "Era un uomo sui quarant'anni, piuttosto piccolo, robusto, dal collo largo, con la testa a pera, da brachicefalo, coperta da una piantata molto rada di capelli scuri, ben pareggiati a spazzola. Pareva un giapponese e comunque un mongolo ..." Nessuno si aspetterebbe che sotto queste spoglie si celi un impenitente dongiovanni, che approfitta dell'amicizia del giovane proprietario della Tinca per scorrazzare su e giù per il lago sospinto dell'inverna e dal muscendrin, sempre alla ricerca di nuove prede femminili: la bella svizzera Germaine e la sua amica Charlotte, l'elefantiaca signora Armida, ... ed infine la linfatica cognata Matilde.

Attorno alla sua conquista da parte dell'Orimbelli ruota tutta la seconda metà del romanzo. Matilde poco prima della guerra aveva infatti sposato l'ingegner Berlusconi, fratello dell'arcigna signora Cleofe, proprietaria dell'omonima villa a lago, nonché moglie, separata in casa, dell'Orimbelli. Ma, complice la burocrazia, il matrimonio era avvenuto solo per procura, in quanto il Berlusconi era già partito per l'Africa dove era scomparso dopo una battaglia. Siccome il matrimonio per procura non era stato consumato nel giro di sei mesi, Matilde è legalmente vedova solo a titolo di cortesia e convive con la cognata nella villa dove, dopo la fine della guerra, è rientrato anche l'Orimbelli. Qui, nella stanza occupata un tempo dal defunto Monsignor Alemanno Berlusconi, viene ospitato di tanto in tanto anche il narratore che, tra un sonno e l'altro, sente solo i tarli che rosicchiano il vestito rosso del vescovo ancora appeso nell'armadio, mentre il subdolo Orimbelli si lancia alla conquista della cognata.

L'atmosfera che si era aperta con una citazione idilliaca del lago da Piccolo mondo antico ed era proseguita come una farsa con avventure boccaccesche, si fa d'un tratto tragica: la signora Cleofe muore misteriosamente affogata nella darsena (altra citazione), mentre il marito, l'amante e l'amico sono in barca. Ecco quindi il giallo, con Chiara che si accompagna magistralmente nelle indagini della procura, fino al colpo di scena della ricomparsa del Berlusconi, vivo e vegeto nonostante la dichiarazione di morte presunta, ma "capponato". Questi non crede al suicidio per disperazione della sorella Cleofe e si mette ad indagare, fino a trovare le prove della colpevolezza dell'Orimbelli, che nel frattempo ha sposato Matilde. L'epilogo è il suicidio, questa volta vero, dell'Orimbelli: un'impiccagione alla Condé nella stanza del vescovo.

Magistrale anche l'interpretazione di Ugo Tognazzi e Ornella Muti nell'omonimo film di Dino Risi, in cui anche Chiara fa una breve comparsa come cancelliere del tribunale, quello stesso lavoro che aveva svolto per tanti anni nella vita.


venerdì 15 giugno 2012

Chiara: Saluti notturni dal Passo della Cisa

Ho ripescato dalla mia biblioteca un romanzo di Piero Chiara, uno dei miei scrittori preferiti. Mi è venuta la curiosità di rileggere questo autore, al quale la critica ha più volte paragonato il bellanese Andrea Vitali e la scelta è caduta su uno dei suoi pochi romanzi non lacustri. Caspita che differenza... erano un po' di anni che non prendevo in mano un suo testo ed effettivamente le analogie si limitano all'ambientazione sul lago e ad alcune tipologie di personaggi. Ma la caratterizzazione è proprio diversa.

La scrittura di Chiara è logica ed essenziale, non si dilunga in dettagli che poco hanno a che fare con la narrazione e che sono invece il pepe delle storie di Vitali. E poi c'è la scelta del "giallo" che Chiara, aiutante di cancelleria dipendente dal ministero di grazia e giustizia fino al raggiungimento dell'età pensionabile, ci fa gustare in molti suoi romanzi. Ma anche un romanzo itinerante, su e giù dal passo della Cisa.

La vicenda si snoda tra Bergamo e Lerici con al centro la provincia di Parma, su quelle colline di Langhirano dove stagionano culatelli e parmigiano. Qui in una villa isolata si è ritirato Pilade Spinacroce, rientrato in patria con i miliardi dopo una vita trascorsa in Argentina. Il vecchio emigrante ha riallacciato i rapporti con sua figlia Myriam, rea di aver ceduto alle lusighe di un casanova da strapazzo, l'oculista Francesco Salmarani, da cui ha avuto Albertino, affetto da una rara sindrome che lo rende una specie di mostro deforme. La gente vocifera che il vecchio Pilade abbia nascosto in una stanza segreta della villa, una sorta di caverna di Alì Babà, i miliardi portati dal Sud America dentro alla bara della moglie ed intorno a lui inizia un balletto alla ricerca dell'eredità o del bottino. La bella governante Maria Malerba (nomen omen), che diventa l'amante del vecchio, i due giovani scapestrati Felegatti e Bonomelli, che cercano di rapinare la villa, lo stesso Salmarani, che diventa a sua volta l'amante della Malerba, mentre si sposta nottetempo tra Bergamo e la Liguria.

Dopo il finale a sorpresa de La stanza del vescovo e il doppio colpo di scena de I giovedì della signora Giulia, il finale dei Saluti notturni non potrebbe essere più inaspettato: una multiforme girandola di possibilità che confondono il lettore. Fino alla battuta finale del protagonista Salmarani all'amorfa Myriam: "Ti ho messo davanti tutte le verità possibili. Scegli tu quella che ti va meglio".

Quasimodo: Sera nella valle del Masino

La poesia “Sera nella Valle del Masino” di Salvatore Quasimodo è composta da otto strofe che non hanno un numero di versi sempre uguale. La lunghezza di ogni verso non rispetta alcuno schema metrico e quindi possiamo trovare versi di sette sillabe e altri di undici. Troviamo poche rime o al mezzo o baciate. Viceversa sono frequenti figure retoriche come enjambement, allitterazioni e similitudini. In certi versi come ad esempio nel primo la frequenza di doppie rende la lettura della poesia fluida e scorrevole. 

Tristezza, noia, nostalgia, rimpianto e amore: ecco cosa rappresenta per Quasimodo la Valtellina. Questi sentimenti vengono espressi nella poesia “Sera nella valle del Masino”. Perché tristezza e noia? Il poeta siciliano non raggiunse la valle per sua volontà bensì perché ne fu obbligato per cattiva condotta. E come noi abbiamo una sorta di repulsione per ciò che ci viene imposto anch’ egli non esitò a odiare la valle. Il malessere era alimentato dalla soffocante nostalgia che gli faceva rimpiangere i bei tempi passati. Come se non bastasse l’amore per Sibilla Aleramo lo farà soffrire costantemente in quanto lei non ricambiava il suo sentimento.

Degno di nota è il paragone di Quasimodo Valtellina-sera . Essa infatti rappresenta il momento della giornata in cui a causa della mancanza di luce la città si ferma, diventa deserta, silenziosa e la noia prende il sopravvento: la stessa noia che Quasimodo provava tra le gelide montagne della provincia di Sondrio.
Inoltre, è proprio di sera che solitamente rimpiangiamo ciò che non abbiamo fatto durante la giornata o in cui ci soffermiamo a riflettere e pensare. E così anche Quasimodo è assalito dalla nostalgia ed ecco quindi il perché per lui in Valtellina… è subito sera

venerdì 20 marzo 2009

Federico De Roberto: I Vicerè

Il più bel romanzo italiano dell'Ottocento: ogni volta che lo rileggo resto sempre della stessa opinione. Un romanzo storico, o meglio antistorico, un'intricata saga familiare in cui si succedono tre generazioni della famiglia Uzeda di Francalanza di Catania, discendente dai vicerè spagnoli. Anche per De Roberto si potrebbe affermare ciò che disse Pirandello: "Ognuno ha la sua croce, io ho Benedetto". La stroncatura crociana ha infatti influito negativamente sulla popolarità di questo libro che ritengo un vero capolavoro. La bellezza che mi avvince ogni volta è la tecnica narrativa, uno stile obliquo, di seconda mano, in cui una ridda di personaggi si avvicenda sulla scena passando da comparse a comprimari a protagonisti di una porzione della storia. Non c'è una sola figura positiva, sinceramente non riesco vederla nemmeno nella contessa Matilde, che col suo vittimismo accelera la fuga del marito.


La vicenda storica si snoda dal 1855 al 1882, anno delle prime elezioni a suffragio allargato, dagli epigoni della dinastia Borbonica al governo della Sinistra. La saga familiare inizia con la morte della matriarca Teresa e l'apertura del suo testamento, che vede nominati eredi non solo l'odioso primogenito Giacomo, erede del titolo principesco, ma anche il contino Raimondo, il prediletto. Il filo rosso delle eredità, carpite con l'inganno o ricercate avidamente, si sussegue lungo tutta la trama: è infatti l'ossessione del principe Giacomo, che riesce con una serie di tresche a riprendere ai fratelli quanto non gli era stato lasciato dalla madre; è il principale argomento di conversazione, ma soprattutto di invettiva di don Blasco, il corrotto monaco benedettino zio del principe, il cui testamento verrà a sua volta falsificato; è infine anche il velato obiettivo di Consalvo, il principino di casa Uzeda, quando dopo la sua elezione a deputato andrà a far visita ai prozii, il duca Gaspare, senatore del Regno, e la vecchia zitellona donna Ferdinanda, fervente Borbonica.

Un altro tema presente nel romanzo è il cinismo e la volubilità delle relazioni coniugali: "Guardiamo la zia Chiara, prima capace di morire piuttosto che di sposare il marchese, poi un'anima in due corpi con lui, poi in guerra ad oltranza. Guardiamo la zia Lucrezia che, viceversa, fece pazzie per sposare Giulente, poi lo disprezzò come un servo, e adesso è tutta una cosa con lui..." Anche la giovane Teresa, per non contraddire il volere del padre e le sue ubbie nobiliari, finisce con lo sposare il deforme cugino duca Michele, sfornandogli un figlio dopo l'altro e spingendo alla follia e al suicidio il fratello cadetto Giovannino. E che dire del principe Giacomo e del contino Raimondo, che ribaltano i matrimoni combinati dalla madre, per sposare la pettegola e acida cugina Graziella e la bella forestiera di turno? Stupende le prolusioni del cocchiere Pasqualino, che narra la tresca tra Raimondo e donna Isabella: il cambiamento del punto di vista, il suo ribaltamento e la deformazione della realtà è infatti una delle tecniche narrative più frequenti, tanto che non esiste più una storia, non esiste più una verità.


Altro motivo centrale è quello della decadenza della razza. Uno dei passi più famosi del romanzo, un pezzo degno del miglior Naturalismo, è il racconto del parto di Chiara. Dopo anni di gravidanze annunciate e mai arrivate o portate a termine, mentre tutti attendono i risultati dell'elezione del Duca a deputato, la marchesa Chiara entra finalmente in travaglio. "A un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi regali: dall'alvo sanguinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, un uccello spiumato; quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe, ed era ancor vivo."

Nonostante l'ostruzionismo dei parenti Chiara vuole vedere l'aborto e decide di conservarlo sotto spirito: "Zio, non pare la capra del museo?"
Al museo dei Benedettini c'era infatti un altro aborto animalesco, un otricciuolo con le zampe, una vescica sconciamente membrificata; ma il parto di Chiara era più orribile. Don Lodovico non rispose; fatta una breve visita alla sorella, andò via. Anche gli altri a poco a poco se ne andarono, lasciando Chiara sola col marito a guardar soddisfatta quel pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Viceré
.

"Il governo è ladro e deve fare il suo mestiere di ladro" è una delle frasi esemplari che si trovano nel romanzo in bocca a quel personaggio picaresco ed unico che è don Blasco.

Ma vi sono altri episodi nel romanzo che spiccano per la loro esemplarità.

Il ragazzo, stordito un poco dal baccano, domandò:
"Che cosa vuol dire deputato?"
"Deputati," spiegò il padre, "sono quelli che fanno le leggi nel Parlamento."
"Non le fa il Re?"
"Il Re e i deputati assieme. Il Re può badare a tutto? E vedi lo zio come fa onore alla famiglia? Quando c'erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!..."

Questo antistoricismo si ritrova anche in altri romanzi siciliani come Il Gattopardo: "Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi" è infatti la sentenza di Tancredi quando si unisce ai garibaldini. La stessa strada seguita da Consalvo che, sedotto dal potere della capitale durante il suo voyage de formation, si converte dal legittimismo Borbonico alla Sinistra che sola lo può portare sui banchi di Montecitorio succedendo così allo zio duca.

Nell'ultimo capitolo del romanzo troviamo infatti la sublimazione del trasformismo nel comizio elettorale di Consalvo che parla per due ore consecutive senza dire assolutamente nulla. Ma al discorso pubblico segue il vero discorso, di aristocratico fino al midollo, tenuto ad una tossicchiante donna Ferdinanda: "Si rammenta Vostra Eccellenza le letture del Mugnòs?..." continuava Consalvo. "Orbene, imaginiamo che quello storico sia ancora in vita e voglia mettere a giorno il suo Teatro genologico al capitolo: Della famiglia Uzeda. Che cosa direbbe? Direbbe press'a poco: "Don Gafpare Vzeda"," egli pronunziò f la s e v la u, ""fu promosso ai maggiori carichi, in quel travolgimento del nostro Regno che passò dal Re don Francesco II di Borbone al Re don Vittorio Emanuele II di Savoia. Fu egli deputato al Nazional Parlamento di Torino, Fiorenza e Roma, et ultimamente dal Re don Umberto have stato sublimato con singolar dispaccio al carico di senatore. Don Consalvo de Uzeda, VIII prencipe di Francalanza, tenne poter di sindaco della sua città nativa, indi deputato al Parlamento di Roma et in prosieguo..." Tacque un poco, chiudendo gli occhi: si vedeva già al banco dei ministri, a Montecitorio; poi riprese: "Questo direbbe il Mugnòs redivivo; questo diranno con altre parole i futuri storici della nostra casa. Gli antichi Uzeda erano commendatori di San Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d'Italia. È una cosa diversa, ma non per colpa loro! E Vostra Eccellenza li giudica degeneri! Scusi, perché?"
E infine:
"Io farei veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa."

lunedì 9 marzo 2009

Flavio Lucchesi: Cammina per me, Elsie

Saggio storico o romanzo? Anche dopo averlo letto e gustato appieno, non so dire se prevalga l'uno o l'altro aspetto in questo strano libro che prende qualcosa da tutti e due i generi. Sì perché l'accurata ricostruzione storica del ricercatore è seguita dal racconto, rielaborato a partire delle memorie di Elsie, cioè Ersilia Maffina.


La storia della famiglia Maffina, originaria della Valtellina, è esemplare di quella grande ondata migratoria che partì dalla provincia di Sondrio verso l'Australia tra la fine dell'Ottocento e la metà del secolo scorso, passando dalle montagne al Bush. Il padre di Elsie, Giuseppe detto Joe, parte da Chiuro per gli USA per poi raggiungere i fratelli nella zona di Kalgoorlie nel Western Australia. Qui i Maffina lavorano duramente abbattendo alberi, finché non riescono ad acquistare una farm nel nord verso Geraldton. Ma un incendio, forse doloso, distrugge tutto, lasciando la famiglia sul lastrico.
Negli anni trenta troviamo i Maffina a Kalgoorlie. Qui la famiglia viene coinvolta nel terribile pogrom del 1934, che vede gli italiani vittime di un odio razziale scatenato nei loro confronti a causa della grande recessione di quegli anni. Anche qui le cose non vanno meglio: il Main Reef Hotel e l'Home Family Hotel vengono devastati, incendiati e distrutti dalla furia dell'odio razziale.
La terza parte del libro si colloca invece durante la seconda guerra mondiale. Nonostante Joe avesse preso la cittadinanza australiana dal 1922 e per giunta soffrisse di cuore, egli venne recluso in un campo d'internamento, come molti italiani che subirono la sorte di passare da immigrati a "stranieri nemici".

Negli anni settanta ho avuto modo di conoscere direttamente la realtà degli emigrati valtellinesi e italiani in Australia. Pur ben integrati e parte attiva della società , non sempre gli italiani erano visti bene dagli australiani, che usavano ancora nei loro confronti epiteti quali dingos. Erano anni di boom e di passaggio per l'Italia, da nazione che emigrava per sopravvivere a nazione ricca e decadente che oggi importa quella stessa manodopera a basso costo che aveva esportato per anni.

venerdì 19 dicembre 2008

Andrea Vitali: Dopo lunga e penosa malattia

L'ho letto d'un fiato.
Dopo due romanzi così così, il dottor Vitali torna a deliziarci con un racconto lungo delizioso e godibilissimo. Questa volta il medico di Bellano non ha preso ispirazione tra le tombe del cimitero del paese, ma ha attinto direttamente dai necrologi sui muri: "dopo lunga e penosa malattia". Come al solito personaggi e situazioni narrati sono esemplari di una provincia nota e familiare, l'epoca sono quegli anni sessanta e settanta in cui in casa c'era un solo apparecchio telefonico nel corridoio e da fuori si telefonava a gettoni, quegli stessi anni di Una finestra vistalago e Un amore di zitella.

I personaggi questa volta hanno nomi comuni, così come comune è la patologia narrata: l'infarto al miocardio che stronca il notaio Galimberti e l'angina pectoris, anticamera dell'infarto, di cui soffre l'amico e protagonista dottor Lonati. Ma chi ha commissionato quello strano necrologio? Come mai vi si parla di assidue cure prestate all'amico dal dottor Lonati? E cosa sono le impronte di scarpe bagnate sul pavimento e la puzza di fritto? Che ruolo ha il farmacista (stranamente anonimo) che assomiglia a un domatore di leoni, a un macellaio o a un maitre d'hotel?

Attorno a questi misteri si snoda una vicenda tanto semplice quanto inattesa, con un finale a sorpresa. Infatti mi stavo chiedendo dove fossero finite le nostre forze dell'ordine.